SULLA CITTA' OSTILE

Riflessione sulla poesia CITTA' OSTILE di Ridolfini

www.ciroridolfini.it

 

La città è ostile... è come se ci respingesse!... C' è proprio la sofferenza di chi cammina per la città e ha la sensazione che essa ci sia vietata. Cosa c'è di più ostile di una città vietata!? Quando diciamo ostile, dal punto di vista psicologico, noi esprimiamo il disappunto, il dolore, la pena per qualche cosa che vorremmo e che ci viene viceversa impedito, tolto, negato. Cioè "ostile" noi non lo diremmo di qualcuno che ci è indifferente, ma useremo tale vocabolo ad esempio rivolgendoci ad una madre che non sembra soddisfare il nostro desiderio di contatto con lei. Ecco, posta in questi termini,. direi proprio di affettività profonda, la questione del nostro rapporto con la città e guardando la cosa da un punto di vista meno soggettivo, meno di vissuto e, al contrario,più oggettivo, e, quindi, di storicamente critico, si può dire che noi di questa città siamo prigionieri, perché essa è una città strutturalmente prigioniera di se stessa, innanzitutto per una ragione di carattere storico-urbanistico. Infatti la città di Napoli è una città che fino a1 '700 è stata impedita di svilupparsi sul territorio circostante e lo è stata per deliberata volontà, perché tutti i nostri dominatori, fino agli spagnoli, hanno voluto mantenere questa città, che sorgeva al fondo di una sorta di vallata vicino al mare, come città fortificata, come un fortilizio. Le mura di Napoli, che sono durate fino al '700 e di cui vi sono ancora tracce, sono le mura di una cittadella che non poteva diventare una città aperta, civile, moderna, perché doveva essere una fortezza. Pertanto non ha fatto altro nei vari strati temporali e storici che sopraelevarsi sul proprio passato, tanto che il nostro livello sul mare è notevolmente più alto della quota originaria. Quindi noi siamo nati e, fino a qualche secolo fa, vissuti come città assediata, come città a cui è stato impedito di espandersi all'infuori di se stessa. Cioé c'è una patologia strutturale. Quest'ultima è uno dei primi caratteri strutturali della nostra infelicità, e infelicità significa "non fertilità". Noi non abbiamo avuto fertilità di espansione urbana fino alla metà del '700 perché siamo stati mantenuti in una sorta di maltusianesimo ante litteram della nostra struttura urbana, prigionieri di questa fortificazione.
Le cose sono incominciate a cambiare soltanto quando, a partire da Carlo III in poi, si è cominciato ad avere l'idea di Napoli non più come fortilizio di reami o comunque di poteri stranieri, ma come capitale di un reame che, come tale, doveva iniziare ad entrare in comunicazione col territorio circostante. Quindi, fino a qualche secolo fa, Napoli è stata una città recisa dal proprio territorio; dato strutturale ovviamente legato anche alla sua mancata trasformazione economica in senso moderno, borghese. Essa poi è rimasta assediata anche nella sua struttura sociale in quanto questa si è modellata su quella prima forma stretta di struttura urbana. E' vero che la struttura urbana riflette e proietta i caratteri della struttura sociale, ma ci sono anche dei casi in cui la struttura sociale viene modellata e, per così dire, imprigionata in quella urbana. Questa forma stretta è come uno stivaletto, che viene messo alla gamba di un bambino; quel bambino cresce, ma lo stivaletto impedisce che la gamba cresca come l'intero corpo. E noi siamo prigionieri di questo stivaletto.
Questa prigionia ha portato ad un mancato sviluppo di carattere economico in quanto la nostra struttura sociale è stata caratterizzata dalla presenza nella corte di una grande classe cortigiana parassitaria, come dimostra la mancata trasformazione fondiaria della proprietà di questi cortigiani. Quindi la nostra é una città che è rimasta sostanzialmente alla regola della rendita. Mentre nella Pianura Padana, in Toscana, in Emilia, alla struttura della rendita fondiaria si veniva sostituendo la struttura del profitto, in quanto anche la campagna veniva organizzata in termini industriali, viceversa noi siano rimasti inchiodati a questo secondo stivaletto torturatore, che è stato quello del mancato sviluppo di carattere inprenditoriale.
Del resto, fino all'ultima guerra mondiale chi erano a Napoli "i signori"? I padroni degli alloggi, quelli che vivevano del canone che gli inquilini pagavano, " 'e proprietarie". C'era, cioè, una struttura sociale condannata alla stabilità, all'immobilità. Vittime di questa situazione sono stati quei tre-quattrocentomila abitanti del ghetto napoletano, dei quartieri, dai bassi che non hanno mai lavorato, non perché non volevano lavorare, ma perché non è mai nata l'istituzione del lavoro vero e proprio. Era fiorita in un certo momento una classe operaia, che era, tuttavia, una minoranza rispetto all'intera popolazione disponibile al lavoro. Oggi ci hanno distrutto anche quella; per cui quando si parla della trasformazione dell'amministrazione napoletana non bisogna illudersi perché essa non può diventare una buona ordinaria amministrazione in una città in cui vi sono delle deformazioni strutturali che ne impediscono il suo normale corso. Questo lo dobbiamo accettare, dobbiamo farcene una coscienza, altrimenti siamo fuori dalla realtà. Poiché lottare contro le deformazioni strutturali é molto difficile, si finisce per fare come Tommaso Campanella, il quale, avendo tentato di fare una rivoluzione contro gli Spagnoli, e non essendovi riuscito, finì per scrivere "La città del Sole". L'utopia è il trasferire nell'immaginazione, nel prospetto puramente ideale, quelle trasformazioni che non si possono realizzare. E, da questo punto di vista, noi siamo diventati, non per volere di Dio o per ragioni metafisiche, ma per ragioni storiche, un popolo utopistico. Che cosa è il nostro teatro? Esso è l'utopia quotidiana. Noi siamo dei grandi attori perché recitiamo in modo trasformato la maschera, simbolo di morte nel quale si finisce per proiettare quel desiderio dì vita che non possiamo realizzare in altri modi. Perciò si dice che i Napoletani recitano molto bene, questo perché recitano la propria quotidianità, ma c'é il rischio che a un certo punto recitino tanto bene che non si accorgano più che quella recita è soltanto una droga per dimenticare la realtà.
Allora Napoli è una città ostile a no?
Ma in fondo la città ostile che cosa è? Siamo noi stessi! Essa non è un' entità astratta. Il fatto è che noi siamo diventati ostili a noi stessi, perché nella gran parte dei casi finiamo col drogarci della nostra recita. Dobbiamo svegliarci! E Napoli ha avuto dei momenti grandi proprio quando, lacerato per un istante il sipario, lo sfondo, le scene di questo immenso teatrino, si è fatta partecipe, fuori dal sonno, della realtà; realtà dalla quale non può sottrarsi vista la violenza con cui essa ci investe. Ma la realtà si cambia non con gesti eccezionali, ma con la pazienza quotidiana, assumendo lo sforzo e la fatica del metodo. Nessuno potrebbe scoprire la verità; io parlo della verità che può scoprire l'uomo, la verità della scienziato, la verità positiva, nessuno la potrebbe scoprire se non si sottoponesse alle fatiche, alle delusioni, alla durezza del metodo!
Credo che noi Napoletani dobbiamo essere fieri della nostra napoletanità, ma, al tempo stesso, uscire dal sonno, dalla recita e affrontare la realtà. Infatti noi ci sentiamo infelici quando ci sentiamo rigettati nell' isolamento.
Credo che per avere una risposta dovremmo cambiare la domanda da "la città è ostile o no?" in un'altra: "in questa città ci sentiamo respinti ciascuro al proprio isolamento, inchiodati alla propria solitudine o no?" E se siamo costretti a rispondere che lo siamo, allora dobbiamo dire: "Sì, questa città è ostile."
Quindi bisogna fare in modo che ciò non avvenga e per ottenere ciò bisogna lavorare per non isolare gli altri. Allora, qui, forse, veramente si innesta un discorso pratico. Ad esempio io ho molta ammirazione per il volartarlato. Esso è l' emblema del gratuito: io faccio qualche cosa non per averne. Io sono convinto che il volontariato sia il valore più alto e attuale che oggi si debba esercitare. Certamente l'arte è una grande occasiore associativa, in quanto chi esegue un'opera d'arte la fa innanzitutto per se stesso, ma in quel se stesso ci soro anche gli altri. L'artista porta dentro di sé gli altri. Quindi la nostra solitudine è carica di un'enorme potenzialità comunitaria. Ma come essa si può applicare in questa città specifica? Innanzitutto lottando contro la droga del cambiare tutto o lasciare tutto così com'è. I processi, invece, si costruiscono lentamente, passo per passo. annodando filo con filo, tessendo una rete che deve diventare sempre più vasta e più robusta. Bisogna incominciare col riunirci, discutere, fare volontariato. Però questo non basta. Bisogna legarsi alle istituzioni, non lasciarle lavorare per proprio conto, ma sostenerle, e, soprattutto, rendersi conto che quotidianamente in ogni iniziativa che si possa prendere si esercita un'azione di costruzione della nostra città, che significa poi della nostra civiltà, cioé dell'essere comunicanti fra di noi. Ma se la comunicazione non deve servire ad agire rimane un atto consolatorio, come quello di coloro che recitano il rosario pronunciando le antiche parole latine, deformandole perché non ne sanno il significato.
Ridolfini sa smascherare, con la forza originaria e comunicante della poesia, il vasto e deleterio teatrino di chi recita per non cambiare. "A teatro da me" è un bel libro di poesie dove Ridolfini compie un'operazione non di napoletanismo. Io, infatti, sono assolutamente ostile alla categoria della napoletanità, quasi che ci fosse un'essenza del Napoletano. Esistono i Napoletani, esiste questa città, le sue pietre, la sua storia, le sue sventure, le sue glorie. Esiste anche il suo divenire in quanto tutto scorre e anche se non lo vogliamo ci trasformiamo: noi dobbiamo, attraverso la presunta napoletanità, di fronte al cambiamento che inevitabilmente avviene intorno a noi, fare come coloro che si aggrappano alla riva per non cambiare. Ho la sensazione a volte che abbiamo paura di cambiare e che, per evitare ciò, ci aggrappiamo ai fantasmi del passato. Infatti, talvolta ho detto che Napoli è una città masochista perché odia se stessa, in quanto odia i cambiamenti; tanto che é giunta perfino ad odiare chi voleva farla cambiare. Questo dobbiamo rompere e lo possiamo solo trascinando gli altri al cambiamento. Non dobbiamo accontentarci di essere noi disposti e vogliosi di cambiamento, altrimenti non cambiamo neppure noi, ma dobbiamo metterci in movimento.
Quindi il libro di Ridolfini non è un libro di napoletanità, ma è un testo in cui il dialetto napoletano non è adoperato secondo i vecchi schemi, ma è visto come una grande forza e anche come una maledizione. E' visto come l'espressione del servo che non vuole, non accetta il linguaggio del signore e in questo afferma la sua libertà sia pure disgraziata, perché non può fare altro che rifiutare la lingua del padrone. Questa é la novità dell'operazione: mentre non accetta di parlare la lingua del signore non si riduce ad ignorarla, ma la vuole possedere; "possedere" la lingua del signore, però, senza rinunciare alla propria, senza farsi portatori servili di quella lingua. E' un simbolo! Un simbolo del nostro impegno morale. Operare dunque per il cambiamento, aiutare gli altri a capire la necessità di cambiare e anche renderci conto che il cambiamento non è automaticamente andare verso il meglio. Dunque lottare per cambiare, aiutare gli altri a cambiare e soprattutto costruire progetti per il nuovo. Ma non progetti a tavolino, che poi vengono smentiti dalla realtà, ma quelli della costruzione giorno per giorno. Quindi dobbiamo, riappropriarci della vita civile come coesistenza. Ci sono città dove non c'è la tensione che si vive a Napoli e in quelle città si può dire che c'é civismo.Lì non troveremo umanità. A Napoli, invece, c'è umanità, ma non civismo. Dovremmo imparare a coniugare civismo ed umanità. In quarto il civismo senza umanità è astrattezza, totalitarismo, sia pure mascherato. Al contrario, un'umanità senza civismo à ancora selvatichezza, isolamento. Ma è più facile passare dall'umanità al civismo che non dal civismo all'umanità. Questa à la nostra fortuna: abbiamo umanità e non civismo. Approfittiamone! Sappiamo plasmarla nella forma del civismo, della modernità, cioè di una nuova organizzazione della società. Che sia organizzazione imprenditoriale, dei servizi, del lavoro, ma sia anche soprattutto respiro per quell'esser compagni che rimane il segno più alto dell'umanità degna di essere vissuta.

 

ALDO MASULLO

Napoli, 14 dicembre '93 — Galleria Maida
In occasione della presentazione del libro A TEATRO DA ME di Ciro Ridolfini Marotta Editore